NOIR VESUVIO – 36 anni fa la camorra ammazzava don Peppino Romano, l’amico di Raffaele e Rosetta Cutolo. Ancora sconosciuti esecutori e mandanti

Somma Vesuviana – Fino ad allora i preti venivano ammazzati solo in Messico, Colombia, Brasile, El Salvador – scrive il giornalista e scrittore Bruno De Stefano – ma il 5 gennaio del 1986 è una data importante anche per un altro motivo: a Somma Vesuviana in un agguato venne gravemente ferito don Peppino Romano, parroco e insegnante. Morì in ospedale pochi giorni dopo. Era amico del boss Raffaele Cutolo e della sorella Rosetta Cutolo. Nonostante siano trascorsi 36 anni anni, nessuno ha mai saputo chi e perché aveva deciso di uccidere un uomo di Chiesa. Nessun pentito, tra le svariate dozzine che hanno raccontato di tutto e di più, ha mai riferito nulla su quell’agguato. Killer e mandanti sono rimasti senza nome. Ma la cosa più grave è che la Chiesa lo ha dimenticato, e la sua città pure. Mi rendo conto che don Peppino non poteva essere annoverato nell’elenco dei cosiddetti preti anti-camorra, ma il punto non è questo: perché nessuno ha mai reclamato verità e giustizia? Io ne ho parlato – anche – nel libro “I grandi delitti che hanno cambiato la storia d’Italia” (nella foto sopra) perché, a suo modo, è un omicidio “eccellente”. La mattina del 5 gennaio del 1986 alla fine di via Mazzini nel popoloso Rione Raimondi, un commando si affiancò a una Volkswagen Golf e sparò a ripetizione su un uomo che guidava l’auto. In quella macchina c’era proprio don Peppino, docente di scienze al liceo scientifico Torricelli. Dopo la sparatoria, rimasto gravemente ferito, morì giorni dopo in ospedale. Don Peppino era nato il 3 gennaio 1934 a Somma Vesuviana nella Masseria Serpente, famiglia contadina la sua. Le sue incoscienti frequentazioni avevano creato non poco imbarazzo alla Chiesa: il giovane parroco della Chiesa di San Michele Arcangelo di Ottaviano, infatti, era amico sin dalla giovinezza di Raffaele Cutolo, divenuto poi il potente e sanguinario capo della nuova camorra organizzata. Don Peppino  lo aveva preso sotto il suo manto protettivo quando era solo un esagitato giovanotto ottavianese e lo aveva seguito pure dopo il primo omicidio avvenuto nel 1963 per futili motivi contro un coetaneo. I due non avevano mai smesso di volersi bene e di restare in contatto neppure quando Cutolo divenne il capo della nuova camorra organizzata. “Oltretutto il Romano – si legge nel capitolo del libro dedicato proprio a don Peppino –  era in eccellente rapporto soprattutto con Rosetta Cutoloa, la sorella del boss, che gli chiese di aiutarla soprattutto dopo che il fratello era finito in carcere per l’uccisione sopra citata. Cutolo, come ben sappiamo, fu ritenuto insano di mente e spedito all’ospedale psichiatrico di Aversa. Qui Don Peppino gli fece visita ben due volte: sui registri d’ingresso, infatti, il prete risultava attestato una volta come cognato e la volta successiva come cugino. Quando Cutolo tornò in carcere, dopo la latitanza, ormai condannato all’ergastolo, Don Romano diventò uno dei principali riferimenti di Rosetta, la donna che gestiva la cassaforte del clan e si occupava di tenere i rapporti con gli affiliati in libertà. Il vantaggio di indossare l’abito talare lo portò a fare da autista e da accompagnatore alla donna per diverso tempo, soprattutto quando quest’ultima fu costretta a darsi alla latitanza. Nel maggio del 1983, però, Don Peppino fu arrestato con l’accusa di favoreggiamento dopo il ritrovamento, in un appartamento, di un carteggio dal quale si arguì che tra il prete, il boss e sua sorella c’erano stati rapporti che nulla avevano a che vedere con la fede. Un’altra documentazione compromettente fu rinvenuta nell’abitazione del sacerdote a Somma Vesuviana. Secondo la magistratura napoletana, don Peppino Romano non era estraneo all’organizzazione camorristica. Tant’è che fu spedito ad un soggiorno obbligato a Macerata. Tale provvedimento fu poi revocato dopo due mesi. Comunque – continua Bruno De Stefano – le disavventure giudiziarie e la sgradevole fama di “amico del boss” non lo disturbarono più di tanto. Uscito indenne dal processo alla NCO, assistette da libero cittadino alla progressiva demolizione del clan messo in piedi da Cutolo, decimato da arresti e condanne. Don Peppino tornò alla sua vita quotidiana di docente di Scienze e di sacerdote, e sebbene non abbia mai preso le distanze né rinnegato quelle imbarazzanti frequentazioni. La Chiesa nei suoi confronti non adottò alcun provvedimento. Rimase a Somma Vesuviana, a due passi dalla sua Ottaviano. La guerra di camorra non era finita, i regolamenti di conti tra nuova famiglia e Nco erano all’ordine del giorno e quel 5 gennaio dell’86 sulla lista dei killer c’era il suo nome.

 

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