Pasqua 2025, la lettera del cardinale Don Mimmo Battaglia: «La vita eterna è una scelta» Il cardinale con una lettera invita i fedeli a riflettere sulla resurrezione
In occasione dell’avvento della Pasqua 2025, il cardinale e arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia, ha scritto una lettera indirizzata a tutti i fedeli per prepararsi ad accogliere la resurrezione di Cristo.
“Care sorelle, cari fratelli, la mattina di Pasqua vi invito a pregare con me in un modo particolare: vi chiedo di fare un esercizio spirituale, uno particolare, di quelli che Sant’Ignazio di Loyola amava tanto, e che si chiamano “immaginazione creatrice”. Come dire: sognare ad occhi aperti, da svegli esplorare il mistero di quel che immediatamente non ci appare, poiché chiede silenzio e coraggio d’esplorazione.
Immaginatevi, vi prego, il momento in cui Gesù risorge: ci avete mai pensato? Vi siete mai chiesti come sia avvenuto? È avvenuto nel silenzio oppure un fragore ha squarciato la notte? È stato un attimo o è avvenuto lentamente? Restate in questa visione, vi prego. Entrate, in punta di piedi, in quel momento che ha cambiato la storia, le nostre storie. Guardate, e sentite, con molta attenzione.
Non c’è stata alcuna esplosione.
Forse vi farà sorridere, eppure questa osservazione è – per la nostra vita spirituale e per quella materiale – assolutamente dirimente. Secondo i nostri canoni, sarebbe più facile rappresentare lo slancio di chi risorge come un’esplosione, un’onda d’urto incontenibile, che con potenza rompe e frantuma tutto ciò che trova sul suo cammino. Poi, in quel tipico silenzio assordante che segue un grande fragore, si allontana quasi con arroganza, lasciando a terra, ormai rotolata via, la pietra tombale.
Eppure, ogni giorno della Sua vita terrena, Gesù ci ha consegnato un ritmo per noi sempre più impensabile: ha abitato sempre, e ancora abita, in ciò che è lento, silente, marginale.
Vi invito a immaginare la Resurrezione di Cristo.
Non un fragore, non luce accecante. Un gesto. Delicato. Senza rumore.
La pietra, quella grande pietra, non fu trovata in frantumi.
Fu spostata. Come si apre piano una porta.
Come si fa spazio, senza urtare.
Come chi si alza – e va via – lasciando intatto il silenzio.
La vita tornò. Ma senza disturbare.
Io immagino Nostro Signore procedere piano. Aver cura di riporre le bende, lentamente.
Delicatamente uscire, attardandosi a contemplare. Il Figlio di Dio, l’Onnipotente, non sbaraglia la morte dopo tre giorni. La percorre durante quei tre giorni.
Non voleva darci il trionfo dei supereroi, quello che arriva in un lampo, con un colpo capace di abbattere tutto. Non era quel tipo di vittoria. Ci ha consegnato qualcosa di paziente, silenziosa.
Non esplosa in un attimo, ma maturata nel buio.
L’ha centellinata, distillata goccia a goccia, come vino buono.
Come fa la vita, quando ricomincia davvero. C’è una eredità potente nel suo risorgere lentamente.
Il coraggio del fare piano, e del lasciar andare la corsa: è questo, per me, il messaggio pasquale più dirompente, quest’anno. In un tempo in cui l’accelerazione – planetaria e quotidiana – sembra toglierci il respiro.
“Rallenta, Mimmo”, mi sento sussurrare ogni mattino, e ogni sera.
Un invito che mi conduce alla Pasqua quotidiana di chi vince perdendo,
di chi è felice non perché arriva primo, né perché arriva per primo.
Perché – forse mi chiederete – una meditazione sul tempo (che quasi sembrerebbe una riflessione sulla “perdita” del tempo), e non una sulla gratificazione del risultato istantaneo, proprio nel giorno in cui celebriamo la vittoria sulla morte? Perché Gesù – spero di non darvi troppo scandalo – non è risorto con la bandierina in mano, come in certi santini di quando eravamo bambini.
È risorto per sempre. E ancora. Nella forma – concedetemi un’espressione un po’ contemporanea – di una “leadership” che rovescia le nostre previsioni: non potente perché veloce, non veloce perché potente.
Ma qualcosa di diverso. Qualcosa che resta.
Ecco perché è cruciale il messaggio sociale e culturale della Pasqua, proprio adesso, mentre il mondo è in guerra: Gesù, il Cristo, non ha mai esercitato potere, non ha mai abbagliato con la promessa di risultati veloci e di grandezza. Lui è l’ultimo, è Lui il povero, è Lui ad essere morto con i morti.
Non reclama territori, li cede: quanto sembra folle, oggi più che mai, questa logica?
È folle oggi come allora, folle come Francesco – il santo di cui il nostro Santo Padre ha scelto il nome per dire alla Chiesa che l’unica forza che ci porterà oltre la morte è la Cura.
La Cura: non l’attacco. L’accoglienza: non il rifiuto. L’abbraccio: non la respingenza. Mentre nel mondo si moltiplicano le guerre, al punto che siamo stati invitati a preparare ognuno il proprio zaino in caso di calamità, io vi chiedo, in questa Pasqua, di aprire gli occhi per vedere la particolare natura della Resurrezione di Gesù il Nazareno: il Figlio di Dio, l’Onnipotente, appena risorto ci chiede dove siamo, in quale guerra siamo anche noi.
E dove siamo? Siamo l’oppresso o siamo l’oppressore?
Pensando ognuno al proprio peso, ci sentiamo, quasi naturalmente, dalla parte degli oppressi, perché non c’è tra noi chi non si senta schiacciato. Eppure, l’onestà dell’incontro con Lui ci porta davanti a noi stessi.
Allora chiediamoci: senza accorgercene, non siamo forse anche noi l’oppressore di qualcuno?
Stiamo cercando potere, poteri, appagamenti veloci che ci seducono, ci stordiscono e poi svaniscono senza lasciare eredità.
E che pure paghiamo a caro, carissimo prezzo, quando ci svendiamo – e vendiamo l’anima – a chi o a cosa ci fa sentire forti, a chi o a cosa ci promette un paradiso terrestre pagato col sangue, reale o metaforico, di un altro?
Perdonate il tono di rottura, nel giorno della festa: è perché non possiamo più accettare che la Resurrezione di Cristo venga raccontata togliendole la sua portata rivoluzionaria.
Arriva lentamente. Ma è un segno che squarcia.
La mattina di Pasqua annuncia che l’Apocalisse è alle porte e che la salvezza è vicina.
Il suo messaggio è chiaro: non si tratta di una garanzia che viene dall’armarsi.
Non c’è vittoria sulla morte se non moriamo a noi stessi, se non rinunciamo al primato del nostro bene singolare per spalancarci alla vita eterna, che è il bene di tutti e di ciascuno.
La vita eterna non è un’illusione, non è una magia, non è un imbonimento per fare proseliti promettendo vincita, orgoglio, supremazia.
La vita eterna è una scelta.
Si risorge se si dice sì, come Maria.
Se si dice sì, come Gesù, al disarmo interiore.
In questo senso, anche la Resurrezione – come la nascita del Dio fatto-uomo – è esercizio spirituale e materiale di capovolgimento della nostra logica vincente.
Vi prego: non sentitevi vincitori, vittoriosi, superiori, quando sentite la gioia di essere figli di un Dio vivente e risorto, che ha sconfitto la morte.
Sentitevi lenti.
L’incontro autentico con Gesù toglie fame di potere e bisogno di accelerazione.
Sentitevi capaci di deporre le armi. Come?
Datevi tempo. Non misuratevi solo in numeri e obiettivi raggiunti.
Date tempo:
ai figli, a chi amate, a chi incontrate per strada.
La corsa è un’autocondanna.
Gesù risorge lentamente per liberarci dalla morsa del “tutto e subito”.
Respiriamo.
Impariamo dalle nostre bronchiti, dai nostri polmoni quando si sono ammalati.
Ora, lentamente, espiriamo e inspiriamo: l’aria, i pensieri, le parole.
La lentezza è vaglio e veglia.
Morire, resuscitare:
nel mezzo, la mistica del rallentare.
Per quale ragione?
Perché è rallentando che vediamo autenticamente, sentiamo profondamente, agiamo nella piena presenza a noi stessi e a Lui.
E soprattutto, perché rallentare è la pre-condizione della Cura.
Lo ha detto, prima di andare via, con disarmante chiarezza: che il comandamento assoluto, la felicità piena, il kit di sopravvivenza nel giorno dell’Apocalisse è uno soltanto:
amarsi gli uni gli altri.
E lo sapete, sulla vostra pelle:
nessuno può amare di corsa.
L’amore chiede di fermarsi.
La cura è solo prestazione, se non rallenta e non conosce delicatezza.
Piccoli gesti quotidiani di cura sono l’avvento della vita eterna già adesso.
Il paradiso già sulla terra.
Non si risorge correndo.
In questo esercizio spirituale e materiale, preghiamo insieme che la rivoluzione pasquale ci porti la dolce mistica della lentezza.
Gioiamo, sorelle e fratelli, festeggiando soprattutto tra noi i più lenti
– i bambini, gli anziani, gli ammalati, i poveri che non conoscono l’Intelligenza Artificiale e le app che trovano soluzioni in un attimo –
perché sono loro la rappresentazione scultorea di quel mattino,
e la prefigurazione della felicità che verrà,
e che può essere già.
L’eternità, qui, adesso,
la riconosceremo dal disarmo della Cura.
Dal tempo lento.”
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