I RACCONTI DI TERRA – Somma Vesuviana tra grandezze della terra e la distruzione del Vesuvio. Poi la ripresa con le eccellenze della catalanesca e della pellecchiella
“Qui il Vesuvio verdeggiava con le pampinee ombre. Qui i molli tini pigiò l’uva pregiata. Questi gioghi Bacco preferì ai colli di Nisa”. “Hic est pampineis viridis modo Vesvuis umbris Presserat hic madidos nobilis uva locus. Haec juga, quam Nisae colles plus Bacchus amavit:”. (Marziale, Epigramma, I sec. d.C.)
La città di Somma Vesuviana si è sempre distinta per l’eccellente qualità dei suoi prodotti agricoli, nel 1600 per le strade di Napoli non era insolito sentire i venditori di frutta, cercando d’invogliare i clienti, gridare:”Ca’ tutto cierto è sapurito e bbuono, masseme ‘sti cerase cuovete mo’ a Somma e a Sant’Anastase”. Sin dai tempi dei romani, circa 2000 anni fa, è testimoniata la presenza nel Vesuvio di molti vitigni e di castagne. Nei vulcanici territori furono importate viti dalla Grecia ed il vino proveniente dal vesuviano veniva denominato greco di Somma. L’imponente ed innegabile fertilità dei suoli compresi nel complesso Somma-Vesuvio fanno sì che da secoli le produzioni provenienti da questi luoghi godano di fama, di qualità ed in alcuni periodi storici anche di proprietà terapeutiche. Nel ‘500 è testimoniata la presenza di cinque uve sommesi: il greco, la falanghina, il fistignano (forse corrispondente al piedirosso), l’aglianico e la “coda di cavallo”.
Pressappoco in quel periodo Torquato Tasso, nella “Gerusalemme Conquistata” definisce così la cittadina: “Somma, d’uve fecond, allor deserta”. Oltre ai vitigni già citati è stata sempre coltivata e vinificata la Catalanesca, uva dalla polpa zuccherina e carnosa e con una buccia molto resistente, il cui nome richiama la probabile origine catalana anche se è certo solo che gli Aragonesi valorizzarono questa vite nel Quattrocento. In questi stessi anni si diffuse la credenza che il vino greco possedesse proprietà terapeutiche utili soprattutto contro la malaria. Un altro vitigno tipico di Somma veniva chiamato “lacrema”, che poi diventò “Lacryma Christi”, il quale secondo una leggenda nacque da una lacrima di Cristo che cadendo generò la prima vite. Nel 1600 era presente un’uva di tarda maturazione: la “tòstola”. Molti sono i reperti romani sparsi per la città che testimoniano le antiche attività vinicole, la stessa Villa Augustea vanta il ritrovamento di una statua di Dioniso.
Durante la dominazione Aragonese a Somma si producevano fichi, castagne e mele, la regina Giovanna III importò nuove colture (pesca, prugna, pera, etc.). Ma nel 1794 si svegliò il Vesuvio e con l’eruzione distrusse quasi del tutto Somma. Il vulcano sterminò alberi e vigneti e nella ripresa della vita mutarono le attività agricole di punta, per tutto l’Ottocento si allevavano bachi da seta, nutriti con le foglie dei gelsi, e si conservava la frutta fresca per l’inverno.
Nei tempi recenti sono nate aziende agricole ed attività affini, si continua la coltivazione della Catalanesca, prosperano alberi di prugne ed albicocche, ciliegie, loti (i cachissi) ed altri ma rimane un settore marginale e poco incentivato. Molte cose col tempo si perdono ma ce ne sono altre che nascono per resistere ai secoli, come il vino di Somma, per fortuna.
Ilaria Feola
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